DIMMI CHE SAPORE AVRA’ (Autoritratto, Dicembre 2014) di Alessio Miglietta

A volte mi pongo un numero irragionevolmente ampio di domande, e a nessuna di loro riesco a dare una risposta. È un problema addizionato a quelli che ho già, come gli sbalzi d’umore, l’attenzione ai dettagli e l’accuratezza tipica dei serial killer, la fragilità di un bambino, l’inclinazione al romanticismo e all’insonnia, un innaturale bisogno di silenzio; e poi l’audacia, a fare il paio, con il desiderio di sushi di un guerriero samurai. A volte mi chiedo se tu sia qui soltanto per usare la mia mente, Alessio. Non so ancora cosa voglio dal mio domani, ma so che tu sei qui, al mio fianco, perciò oggi lasciati andare, e brucia per me, prenditi cura delle mie manie, delle illusioni, delle malinconie, perché anche se spesso siamo ciechi di rabbia, e schiumanti come il mare, so che anche tu riesci a vederle. 

Anche io ti leggo nei pensieri, e spesso si rivela il mio libro preferito. Ogni volta mi meraviglio di quanto ne abbia bisogno per intraprendere il mio viaggio, in questo paradiso senza sogni, giardino senza fiori, cielo senza nuvole. Dove soltanto l’eco delle mie urla risalta come parte attiva, nella sua melodia artificiale.


Sono ad un passo dal perdere i miei sorrisi, e con loro i miei anni migliori, il filtro si è occluso e il dolore è rimasto dentro, senza possibilità di defluire. A volte ho paura che la vita mi presenterà il conto, e che rimarrò chiuso in me stesso senza più provare nemmeno una singola emozione.

Poi all’improvviso compari tu, che cammini come farebbe un angelo, ma so che non lo sei, perché non sorridi, e sei sempre vestito di nero, hai gli occhi nascosti dietro un paio di Rayban, e metti in mostra, senza volerlo, quelle labbra così rosse. Che sapore ha il mio sangue?


Questa sensazione mi sconvolge, mi soffoca, e mi succhia dall’interno, so che forse non mi riprenderò mai. C’è qualcosa che non riesco ancora a decifrare, lacrime da adolescente e pensieri da vecchio saggio mi rigano gli occhi e la faccia, so che mi hai scelto tra milioni di persone, e che prima o poi mi lascerai. Continua a piovermi nell’anima, so che nessun rifugio mi potrà riparare, e soprattutto, che ho perso l’ombrello alla stazione quel giorno, quando ero convinto di voler cambiare vita; mi sono ritrovato quindi a fissare il treno che partiva, in lontananza, incurante del mio indugio.

Mi manca parlare con le persone, sorridere e non pensare a niente, mi manca evadere dalla quotidianità; odio sempre più il clima delle feste con accozzaglie di persone, il non essere sufficientemente apprezzato sul lavoro ed essere l’ultima ruota del carro perché tendo ad essere sempre gentile in un mondo tendenzialmente di stronzi; odio i malanni di stagione, che mi debilitano nel corpo e nell’anima, chi non azzecca un congiuntivo nemmeno per sbaglio e chi sputa per terra.


Ricordo una sera senza stelle, di qualche luna fa, che si affacciava all’orizzonte, dove ogni dettaglio era immobile, nonostante sembrasse in continuo movimento. Mi muovevo a passi incerti nel silenzio, sospirando affannosamente e preso alla sprovvista da mille paure e ansie, in egual misura, che mi portavo dietro. Insieme ad una fastidiosa emicrania, e ad un dolore fisso al centro della schiena, erano i segni preliminari di insofferenza del mio corpo, sopraffatto dall’insonnia sempre più frequente dei giorni precedenti. Era una sera senza pretese che, con leggero anticipo, si apprestava a togliere le tende, e che si preparava ad accogliere un nuovo giorno, anche lui con poca voglia di raccontare qualcosa che valesse davvero la pena di ricordare.

Sgranchivo meccanicamente i muscoli del collo, e proseguivo il cammino, imboccando un lungo sentiero che si lanciava in profondità. 

Ricordo quella sera in cui ero in marcia da così tanto tempo che non sapevo nemmeno dove fossi realmente arrivato. Mi ritrovai su una strada aperta verso sud, con la luna maestosa e pallida a fissarmi, circa due ore dopo il tramonto. Vidi delle formazioni di nubi che si muovevano in modo apparentemente irrazionale, una da est, più scura, l’altra da ovest. Nel mezzo, ho visto un’altra grande nuvola prendere il largo, con una figura che ne emergeva da dietro. Mentre guardavo quello spettacolo, dopo circa sette minuti, la formazione centrale ha preso la forma del tuo volto. Sembravi preoccupato e spaventato, caro Alessio, mentre guardavi la formazione più scura. Hai provato a chiamarmi, ma non avevi voce, poi il mare in tempesta ha catturato la mia attenzione, facendomi notare le mie emozioni che erano lì a pezzi, come una collezione di conchiglie abbandonate sulle sue rive.

Tu eri in un ospedale nel cuore di Roma, e stavi morendo. Come le nuvole al di fuori si avvicinarono insieme, un grande braccio bianco proveniente dalla formazione ovest raggiunse la nube contenente la tua immagine. La mia sensazione fu che fossi finalmente sollevato dalla tensione e dal dolore, che avevo invece percepito poco prima. Entro dieci minuti le nuvole, tutte insieme, hanno creato un alone intorno alla luna. Ho saputo solo qualche ora dopo che tu eri morto alle cinque del pomeriggio, appena prima del tramonto, e so che il tuo spirito è venuto da me quella notte, per chiedermi perdono o forse semplicemente, solo per salutarmi. Come si fa con un vecchio amico. 

E so che così, tu morirai ogni giorno al tramonto, Alessio. Accadrà finchè non toccherò il fondo della mia anima con una delle mie poesie. E come spesso accade, anche questa è dedicata a te, perché sarai tu a dovermi dire che sapore avrà leccarsi le ferite, quando sarà ora di rialzarsi.


AM

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