I'M IN BLUE di Alessio Miglietta

Anche questo Natale è andato e la fine di dicembre, mestamente, si avvicina, in questo 2015 che si è rivelato un anno davvero di merda. Tento di scrivere un pezzo nuovo dopo oltre tredici mesi di buio totale. Il mio umore è nero e denso come fumo da parecchio tempo, e le feste come prevedevo si sono rivelate una semplice, seppur suggestiva, parentesi. Di solito, quando sono saturo di malinconia, il peso specifico delle mie parole si innalza esponenzialmente in termini di qualità; cercherò quindi di approfittarne, e di compiere finalmente uno slancio, che sia degno di questo nome. Se esistesse un interruttore per spegnere i miei pensieri, non esiterei un istante. Penso continuamente e sempre con la stessa maledetta intensità, probabilmente per tentare di rifiorire, per scappare un po’ dalla vita, che non mi piace neanche un pò. L’ho sempre vista troppo complicata, la vita, una palla al piede, qualcosa per cui non varrebbe nemmeno la pena lottare. Per me la vita non è un dono, ma un atto dell’opera teatrale scritta dalla natura. Gli inglesi pronunciano spesso, per evidenziare uno stato d’animo avverso, la frase I’m in blue. Letteralmente è traducibile come sono giù di corda, ho il morale a terra, o sono depresso.
In questo momento della mia vita, questa frase rende perfettamente l’idea. Certo, mi sento ancora troppo forte per credere di essere nel pieno di una depressione presa ad arte dal DSM, ma sono anche abbastanza fragile da poter dire anch’io, con estremo realismo, I’m in blue, avvolto in una morbida e metaforica Union Jack sbiadita. 
Anche oggi, sento sulle mie spalle il peso di una giornata che è appena a metà, e vorrei fosse già finita. Sento l’anima sporca e pesante come un’armatura, quando vorrei che fosse sfoderabile e lavabile, come la federa del mio cuscino. Il punto è che sono incazzato con il mondo e con la vita, con il naturale stato delle cose e il regolare corso degli eventi. Non amo più stare in mezzo alle persone, e l’unico contatto con il prossimo che ho deciso di mantenere è legato a piccole buone azioni da remoto, come donare il sangue; ma ho smesso di sorridere da tempo, e ho paura che tutti i miei mondi espressivi interiori siano ormai in guerra fra loro. Sono mondi in cui regna il caos, la delusione, la rabbia più rossa. Quando sono immerso nei miei pensieri in religioso silenzio, a contatto con la natura, mi sembra addirittura di sentirlo quel rumore di guerra, il suono metallico delle spade sugli scudi, le urla di dolore, i colpi di cannone. Vorrei le spalle scosse dai singhiozzi e invece non piango più, cosa che mi pesa e mi manca, perché mi faceva sentire tremendamente umano. 
Mi ritrovo in trappola in uno stato esistenziale a metà tra frustrazione e indignazione, odio, rabbia e senso di rivalsa, sfiducia e disperazione; frutti dell’ansia che germoglia in me, dell’essermi abbandonato, del risentimento di cui mi nutro, della solitudine a cui ho dato sempre più spazio. Perché il mio motto è tacere sempre, quando le cose vanno bene,e anche quando non vanno troppo male, perché si fa sempre in tempo a peggiorare. Ultimamente mi trovo bene solamente con gli animali, e la cosa potenzialmente mi turba, sto diventando sociopatico ma con un difetto di fondo. Il senso di colpa. Soprattutto verso Elisa, l’amore della mia vita, l’ingranaggio perfetto su cui la mia intera esistenza compie il suo moto. Ricordo ancora il nostro primo incontro, la prima volta che abbiamo incrociato gli sguardi, il nostro primo bacio. Quella sera di ottobre, una volta tornato a casa e infilato nel letto, ricordo di essermi tirato le coperte fin sopra la testa, nascondendo un sorriso ampio da un orecchio all’altro, come per nasconderlo, per non disperderlo nell’aria circostante. Forse l’ultimo momento di vera felicità. Quando è arrivata Elisa, sole luminoso nel regno del mio caos, ho esultato. Avevo visto in lei la persona che cercavo, colei che tranquillizza e protegge, e che mi avrebbe dato una mano a cambiarla, finalmente, la vita. Il punto fermo su cui far ruotare l’universo che mi si espande dentro. Cosa che, puntualmente, è avvenuta. Il mio pessimismo cronico, però, è una belva difficile da imprigionare, e ci sono giorni – talvolta periodi, o addirittura mesi – che il buio e il caos riprendono improvvisamente il sopravvento. E quindi la tristezza torna a regnare, riportando la mia metamorfosi al punto di partenza. Questa situazione, a essere onesti, mi sta lentamente uccidendo, perché non ho quasi più le forze per contrastare il dolore con i pensieri positivi, meravigliosi palliativi, che sono finiti da un pezzo.  
Lei si ritrova spesso a guardare in occhi spenti, senza più gioia, sogni o ambizione. Ho iniziato a odiare anche il mio lavoro, e ho riscoperto che in realtà l’ambizione è l’ultimo rifugio dei falliti, come diceva Wilde. È anche la morte del pensiero, come ammoniva Wittgenstein. Mi piacerebbe dire sto bene così, invece le uniche parole che escono dalla mia gola sono I’m in blue. La rabbia mi rende cieco, la delusione mi ingabbia, e l’inquietudine prende il controllo della mia mente, sconvolta da incubi che mi avvelenano, da pensieri che mi inquinano, alterando la mia quotidianità, l’amore cui tento di lasciarmi andare. Quanto mi manca l’amore.
Invece anche il corpo inizia a cedere, la pelle si secca come sotto sale, e mostra già i primi lividi. Il sangue diventa calore incontrollato, rischia quasi di incendiarmi dall’interno, e il cuore batte al ritmo dell’heavy metal, come se volesse esplodere, e far crollare tutto l’edificio. Cresce l’adrenalina, provocando contrazioni articolari, mentre l’umore precipita dal dirupo degli occhi, che assistono all’osceno spettacolo, rendendo più buia una stanza senza luce. Il sole sembra essere tramontato da un pezzo, provo a isolare la contaminazione ma la crisi è profonda, e l’infezione continua, senza cenni di arresto. La schiena sembra dissestarsi e il mio corpo si inchina a spasmi incessanti, a infiammazioni muscolo-scheletriche, a sospiri violentemente affannosi. Gli abusi dell’ansia sull’addome, infine, mi tolgono le forze di reagire, disegnando quello che, ogni volta, spero sia l’ultimo giorno della mia vita, la fine di un’era. Invece non redts che nausea.
Quanto mi manca l’amore, non mi stanco mai di dirlo. L’amore che scorre a terra, sotto sentieri asfaltati. Amore che scorre sotto traccia, come l’ultimo corso d'acqua del nostro mondo, tenendo umide le radici della vita, e sogni coltivati con invidiabile cura. Mi manca l’amore che si posa sulle foglie più verdi, come la rugiada del mattino. L’amore che mi bagna i piedi, sul prato del tempo, e che mi arriva al cuore, per capillarità. Mi manca l’amore che mi permette di restare sospeso sotto un cielo di stelle, che mi lascia sulla pelle sensazioni meravigliose, desideri esauditi in una notte d’estate. Voglio guardare Elisa ogni giorno come un bambino che aspetta di vedere il mare per la prima volta. Mi manca l’amore che fa splendere la nudità della sua intelligenza, e la freschezza dei suoi pensieri, creando una musica talmente soffusa da simulare il battito d’un piccolo cuore, tra i riflessi rosa del nostro cielo, al tramonto. Esistono cieli di un altro mondo, che brillano di solitudine, e che con una semplice tempesta sono in grado di far brillare l'anima, cieli che non hanno atmosfere a smorzarli, né arcobaleni a rigarli, tanto meno preghiere a macchiarli. Sono cieli che appartengono a chiunque, ma che pochi riescono a vedere. È una questione di sensibilità, per pochi eletti. Quei pochi eletti, sono in grado di riconoscere la fine di quel cielo. Perché la vita è fatta di cicli che finiscono, di cose che sono state e che non possono, semplicemente, più essere. Bisogna imparare ad accorgersene per tempo, e imparare a saltare, nel tentativo di un volo, prima di sentirsi la pelle troppo pesante. Io guardo spesso tra le stelle, quando il lavoro non mi trattiene, mentre la vita scivola via dagli occhi e dalle mani. Vedo che, anche oggi, il cielo è blu. Io ho sempre odiato il blu, ma non fa più differenza, perchè I’m in blue. 

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