IL PAESE DELLE MERAVIGLIE [Cieli Di Valium] di Alessio Miglietta

Mi immagino avvolto dalla gloria, in questo apocalittico 2012, e non mi succede spesso, ultimamente. Mi immagino famoso, sull’onda più alta del successo, dopo aver venduto cinquanta milioni di copie, o giù di lì, del mio primo libro, dopo essere diventato un’icona culturale e mediatica, dopo aver creato la prima vera febbre da star dai tempi dei Beatles. Mi affaccio alla finestra della mia camera d’albergo, vestito di una camicia da notte di seta grigio perla, in preda a una strana sensazione di nausea e sonnolenza, forse causata dall’abuso di vino rosso di ieri sera. Ho bisogno di farmi pungere il viso e la pelle dal freddo mattutino, per svegliarmi e ritemprarmi, dal momento che delle mie ore precedenti non ricordo un accidenti di niente. Nel sentire un languido movimento tra le lenzuola pallide e stropicciate mi accorgo di non esser solo, e noto dei riccioli castani insinuarsi tra i cuscini del mio letto. È una ragazza molto graziosa, spoglia del trucco e della sua sottoveste, la sveglio e le do il buongiorno, chiedendole il suo nome. Un suo breve sussulto di disorientamento è accompagnato da uno sguardo di gioia che mi lascia piacevolmente sorpreso. Si chiama Iris, come uno tra i fiori più belli conosciuti all’occhio umano, e lei non è da meno. La invito a far colazione insieme, con l’intento secondario di capire come sia finita nella mia stanza, e lei accetta, con un sorriso splendente. Mi dice di aver bisogno di una doccia prima, e la prego di accomodarsi, con il fare di un conte. I soldi non hanno comprato anche le mie buone maniere, dopotutto. Il tempo di una telefonata alla reception e di fumare una sigaretta guardando il sole già alto dalla finestra, e sento i tre colpetti di una mano guantata alla porta, tipici del servizio in camera.
Iris esce dalla doccia con i capelli lunghissimi ancora umidi, si infila in un accappatoio bianco mostrandomi la schiena nuda, e mi ringrazia della colazione. Iniziamo a parlare amabilmente. Sembra una ragazza molto timida, nonostante l’atteggiamento elegantemente ambiguo, ma la sua bellezza sopperisce a questo piccolo difetto caratteriale. Mi dice di essere una studentessa universitaria prossima alla laurea in lettere moderne, mi confessa di essere una mia fan, di aver perso la ragione per il protagonista del mio secondo libro (in realtà me medesimo …), e del mio stile di scrittura così poco convenzionale. Dice che non si sarebbe mai aspettata un successo talmente violento e improvviso della mia prima pubblicazione, non essendo un’opera di facile catalogazione, ma che le fa senza dubbio piacere vedermi sulle prime pagine dei giornali, sui manifesti lungo le strade e nelle metropolitane, e sulle maggiori riviste del settore. Accenno un sorriso, accompagnando i suoi complimenti tanto graditi quanto sinceri, ma dentro di me ricordo ancora i giorni successivi alla mia nomina come personaggio letterario dell’anno, e come fenomeno di vendite degli ultimi cinquant’anni, con tanto di serata di gala trasmessa in tutte le televisioni, nazionali e non. Ricordo quando la gente ha iniziato a rimanere di sale al mio passaggio, o a toccarmi come fossi un messia del cazzo, quando i flash dei fotografi illuminavano la notte, o quando vedevo (e vedo tuttora) ragazze apparentemente intelligenti strapparsi i capelli e le corde vocali, quando non si sentivano groupies. Molto prima di tutto questo io lo sognavo un futuro così, convinto che fosse la vita che avrei sempre voluto vivere, per sempre. Per sempre. E sempre. Sembrano mille anni fa. Ora mi ritrovo ricco, famoso e affermato, in uno strano limbo in cui firmare autografi e posare per foto ricordo di sconosciuti, in compagnia di una delle tante ragazze splendide che allietano le mie tourneé in giro per l’Italia e l’Europa, e provo noia, di primo livello. Chiedo a Iris di smetterla con i convenevoli, e le domando cosa ricorda della scorsa notte. Lei mi parla di fiumi di champagne dopo una conferenza stampa alla quale ero stato invitato (e obbligato ad andare dal mio editore), che lei era lì a prendere appunti per la sua tesi, mi racconta del nostro incontro non troppo fortuito, e di ottimo sesso per tutta la notte. Sorriso. Imbarazzato, per così dire. Le confesso di non ricordare nulla di tutto questo, e così lei si spoglia, cercandomi con gli occhi, entrandomi negli occhi, aprendo le gambe di fronte a me, facendo svanire la sua timidezza e la mia voglia di fare domande ormai inutili. E la prendo, stavolta lucido e aggressivo, cadendo su di lei, penetrandola. Stringo i suoi seni morbidi con entrambe le mani, pentendomi di aver perso il ricordo di una sensazione tanto densa e calda, avvolgente e vellutata. La sento gridare, con il suo miele che mi invade, e la afferro per i capelli, raggiungendo l’estasi che da tempo attendevo. Prendiamo un respiro infinito e ci stendiamo sul letto. Lei mi abbraccia e mi bacia le labbra, poi il petto e le mani, con lo sguardo luminoso, ma in un momento del tutto inaspettato, le chiedo di rivestirsi e di andarsene immediatamente, ringraziandola del brivido che mi ha donato pocanzi. Mi guarda negli occhi, sull’orlo del pianto, ancora arrossata di piacere, ma non me ne curo (come invece avrei fatto in passato), e così lei se ne va, dopo aver preso la borsa e pochi abiti, sbattendosi dietro la porta, con le labbra cremisi vogliose di urlarmi stronzo, bastardo, figlio di puttana, ecc. Un mio amico mi diceva sempre tratta le donne da principesse e sarai re, ne ero convinto anch’io. Ma ora che ho tutto, cos’è che può ancora accendere la mia fantasia, le mie emozioni? Su cos’altro non sarei in grado di regnare? Perché dovrei avere sensi di colpa? Sono ambito e rispettato, amato dal pubblico e venerato dalla critica, invidiato dagli uomini, desiderato dalle donne, idolatrato dagli adolescenti, riesco a gestire il mio successo senza morirne, esserne schiacciato o divenirne schiavo, cosa potrei volere di più? Apparentemente non ho più bisogno delle persone, quasi quanto prima. Ma già dopo due anni di follie e di inversione delle attitudini, il gioco sembra avermi stancato, e non riesco più a sognare, è questo il punto. Punto. Punto critico. Punto e basta. Basta uno schiocco di dita e ogni mio fottuto desiderio viene esaudito, anche il più assurdo. Ogni cosa è diventata ovvia, routinaria, e la mancanza di adrenalina è il mio vero credo, il mio presente, così proprio ora che riapro gli occhi in questa stanza d’albergo, da solo e senza più Iris, mi accorgo del mio cambiamento. Non c’è più spazio neanche per quel velo di malinconia che mi accompagnava fedele quando buttavo giù le mie prime bozze, quando il mio impero era appena un pezzo di terra arido, quando credevo di poter essere felice con il solo combustibile della brama, della fantasia. Illusioni. Quel combustibile va miscelato alla continuità. E non tutti sono così disturbati da volerlo sul serio. Sono stranamente rilassato, e la neve inizia a fioccare sulle strade sporche di città che solo Milano crede di possedere. C’è un fiore sulla tavola, avvolto da un’ampolla di cristallo di Boemia, e lo osservo, lo vedo seccarsi ora dopo ora, perdere un petalo dietro l’altro e il primordiale vigore erettile, tanto da sembrare una parabola. C’è un fiore, e mi guarda indifferente. È proprio un iris, ed in questi giorni passati qui non gli ho mai dato acqua, né la possibilità di sopravvivere al mio contatto. Proprio come ho fatto con la donna che ho cacciato dal mio letto poco tempo fa, neanche fossi Dio con Eva. È questo il prezzo da pagare, per di più in modo consapevole? Sono un’ombra che tutti cercano di prendere, che tutti vogliono indossare, ma non è altro che la loro immagine riflessa sui muri o sui vetri, non la mia. Vado in bagno, mi lavo la faccia senza guardarmi allo specchio, non voglio vedere ciò che sono diventato, mi farebbe del male, in fondo in altri contesti mi additerebbero alla pari di un omicida. Ero un Poeta Maledetto. Ora sono un Maledetto senz’anima. Una volta non era così, io non ero così, ma il mio sogno più grande si è avverato, si è fatto prendere, mi ha teso la trappola, e mi ha violentato. Sono ormai le sette del pomeriggio, ma non oso uscire per timore che la gente mi riconosca, mi ami, senza prestare attenzione al mio amletico dubbio. Non voglio accendere la televisione, né la radio, né sfogliare un quotidiano (lasciato ogni mattina dagli addetti dell’hotel alla porta della mia stanza), per sentire o vedere il mio nome sulla bocca di tutti. Il mio viso negli occhi di tutti. Il mio cuore, se ancora posso chiamarlo così, tra le mani di tutti.
È l’altro lato del successo, ladies and gentlemen, quando la fama non brucia il cervello con le droghe o l’arroganza costruita, ma con i rimpianti, primo fra tutti quello di non aver sognato abbastanza, non troppo a lungo, di non essere stato più forte di me stesso, della mia metà immorale. Ripenso a mio padre e mia madre, che ho mandato al diavolo in concomitanza del mio primo contratto editoriale milionario, una scelta dettata dalla rabbia di non averli mai avuti vicini, quando il bisogno di loro gridava dal mio interno. Penso alla mia vecchia vita, che un po’ mi manca, con la birra, i pub negli angoli lato finestrino, le sigarette in compagnia, i segreti, con i miei fratelli così complici, i miei amici veri, il lavoro precario e la paura di non arrivare mai alla fine del mese. Ora riempio le tasche di servili ruffiani medievali in versione moderna (spesso li chiamo giullari con i-phone), offro da bere a ragazze dal gomito e dalla gonna facilmente alzabili, ho una Cadillac nera con autista tipica del sogno americano, ed il portafogli che se lo si appoggia all’orecchio come una conchiglia, riecheggia del continuo fruscio di banconote in uscita. Tutto questo a ventisette anni, per aver scritto un solo libro del cazzo, frutto di eventi realmente deleteri che hanno lasciato il segno nella mia vita. Un tempo malinconicamente giusta. Ma io non la vedevo così, me ne accorgo ora, con il senno di poi. Scrivere un semplice diario mi ha portato dritto in cima al mondo letterario, ma da quando ho scritto la parola fine sembro essere finito anch’io, già esausto della dolce follia che mi circonda. Mi hanno chiesto di scrivere il seguito, e ho riso per ore, come un pazzo. Come posso farlo se sono privo di sogni e di idee? La mia esistenza non è una trilogia da ficcare nel culo e nei cuori della gente, ma sembra un concetto troppo complicato, a quanto pare. Il mio stesso mondo poggia sulle mie spalle, e pesa come un macigno, a volte non vedo l’ora di scrollarmelo di dosso per ricominciare tutto daccapo, e riscoprire l’arte e l’amore per cui scrivere. Per vivere. Una volta mi bastava una donna per questo. Sono una gothic star, e non me ne vergognavo, anzi, ma ora è tutto diverso, non sono più l’uomo che credevo di essere, né quello che desideravo di essere. A volte penso che dovrei uccidermi, con un colpo in testa, come fece Kurt Cobain. Ho ventisette anni, tutto sembra calzare a pennello. È quasi la mezzanotte e tutto il mondo è in festa, mentre un’altra sigaretta scivola sulle mie labbra, per allungare la mia collezione di bobine spente sul cornicione della finestra. Fuochi d’artificio mi illuminano il viso, dall’alto dei cieli, come fosse la fine del mondo, ma tutti cantano, ridono, bevono, se la spassano. Tutti tranne me, che continuo a cadere. Non so più se verso l’alto o verso il basso, ma continuo a cadere. Buon anno nuovo, mondo di merda.

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