C'è Troppa Frociaggine, di Alessio Miglietta
Non voglio che la mia voce sia una carezza. Voglio che sia un graffio che ti sveglia. Perché la cosa più irritante non è l’essere umano che ama in modo non standard: la cosa più irritante è la menzogna di chi fa finta di capirlo mentre incassa. La mercificazione dell’identità queer è un caffè amaro servito con guanti di pelle: estetica arcobaleno sull’etichetta, sfruttamento dietro il bancone. Pride corporate? È marketing con la bandiera di carta. Sponsorizzazioni che pagano sorrisi, non servizi. Ti vendono la sensazione di “essere dalla parte giusta” mentre tagliano i fondi ai centri di aiuto. È nauseante e magnifico, perché niente racconta il nostro tempo meglio di questa ipocrisia in saldo.
Passo dalla scena al privato e trovo ferite non patinate: genitori che imparano tardi o mai, medici che fanno domande da inquisizione, uffici pubblici che chiedono documenti come se esistesse un formato ufficiale per l’anima. La burocrazia è una bestia che si nutre di esistenze non conformi: richiede spiegazioni, certificati, prove, come se il diritto di amare dovesse essere meritato con carta intestata. E chi reclama “tolleranza” come un trofeo subito mostra il suo prezzo: un sorriso a parole, un calcio a fatti concreti.
Ma non farmi passare per moralista di professione. Vuoi il politicamente scorretto? Eccolo: prendo a pugni le idiosincrasie del martirio vittimistico e il pietismo performativo. Non tutte le storie queer sono sacre reliquie, alcune sono banali e meschine come tutte le vite. Ci sono personaggi che cercano attenzione e persone che si nascondono dietro la causa come un salvacondotto per la mediocrità. È fastidioso, ma è reale. La rivoluzione non è immunità dalla stupidità umana.
Ecco la cosa importante: chi urla più forte non ha sempre ragione. Le narrative impeccabili, le biografie patinate, le cause fontanelle di like, spesso coprono il lavoro sporco — cure, terapia, protezione legale — che non va in tendenza. L’orgoglio ridotto a parata è spettacolo, non ristrutturazione. È più comodo scattare foto al carro che mettere le mani nello sporco della vita quotidiana: lottare per l’accesso alla salute, per il diritto di adozione, per la sicurezza nelle strade. Combattersi sui pronomi sui social è un esercizio di stile, mentre davanti agli ospedali manca personale e soldi.
La violenza esiste e non la truccano le buone parole. Esistono botte, insulti, abbandoni. Ma esistono anche risate che curano, amicizie che diventano famiglia, corpi che imparano a stare nel proprio spazio. E allora il pezzo che urla è questo: non fate dell’identità un prodotto; non trasformate il dolore in merchandising; non chiamatela tolleranza se non siete disposti a pagare il conto. La vera scorrettezza è smascherare l’ipocrisia: ridere con chi soffre, prendersela con chi sfrutta, creare reti che non passano per il layout di un report annuale.
La città brulica di storie non filtrate: bar dove si discute di leggi, appartamenti dove il silenzio fa più male di una porta sbattuta, discoteche dove la musica copre le confessioni. Ho visto chi piange nascosto nel bagno e chi organizza raccolte fondi col sorriso di chi ha capito il prezzo della visibilità. Ho visto genitori che diventano complici e genitori che divengono giudici. Ho visto l’amore che è banale e feroce, l’amore che non si merita per forza lodi ma chiede solo giorni senza paura.
Se sei infastidito da questo tono: perfetto. Forse non volevi essere svegliato. Io non sono qui per cullarti. Sono qui per sputare in faccia agli specchi e vedere se si frantumano. Perché la rivoluzione più dannatamente vera non è quella che si fotografa, è quella che costruisce case dove non c’erano mura, che assiste quando nessuno applaude, che organizza quando il palco è vuoto.
Quindi sii fastidioso anche tu. Rompi il rituale della compatibilità sociale: sostituisci il post con la presenza reale, lo slogan con l’azione, l’hashtag con la solidarietà pratica. Essere “politically incorrect” per me significa mettere in luce le contraddizioni fino a farle sanguinare, non sputare sui vivi. Essere irriguardosi verso il sistema, non verso la carne dei singoli. Se questa cosa ti disturba, tanto meglio: il mondo ha bisogno di meno foto perfette e di più mani sporche.
AM
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